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quell'abbi-gliamento non potevo essere che suo padre.
«Dunque, mi occorre l'indirizzo di dove porta sua figlia», disse. Aveva in mano un piccolo taccuino e una
penna a sfera.
«Naturalmente», dissi. Gli diedi il mio indirizzo.
«E lei certo non mi sembra di diciott'anni», disse. Scrisse il mio indirizzo nel suo piccolo taccuino. «E
aveva abbastanza alcol qui, da aprire un bar». Fece segno al cesto della spazzatura. Bottiglie di bourbon,
scotch. «L'età per bere è ventun anni, sai».
«Gli ho detto che è roba di Jack», sussurrò con voce rauca, sforzata. «Jack ancora mi gira intorno, tu lo
sai, papà». Tirò fuori un Kleenex dalla tasca del cappotto e si soffiò il naso. Sembrava di dodici anni. Era
atterrita.
«Senta, questo per lei è stato davvero un incubo, e desidero solo portarla a casa», dissi, cercando di
non appari-re spaventato. Sollevai la valigia e il sacchetto.
«L'ho conosciuta da qualche parte», disse il poliziotto. «L'ho vista in TV. Ha detto Diciassettesima
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Strada o Dicias-settesima Avenue? Dove l'ho vista?».
«Diciassettesima Strada», dissi, cercando di parlare con voce ferma.
Qualcuno lo urtò da dietro. Stavano portando via dalla camera sul retro qualcosa che somigliava a un
divano. Lampadine da flash esplodevano là dietro.
«E questo è l'indirizzo dove la troveremo se avremo bisogno di lei?».
«Non li conoscevo», disse Belinda, sforzandosi di non piangere. «Non ho sentito nulla».
«Mi fa vedere un documento d'identità, per piacere», mi chiese il poliziotto, «con sopra quest'indirizzo?».
Presi il portafoglio e gli mostrai la patente. La mano mi si agitò in modo innaturale. Sentivo che la faccia
mi si inondava di sudore. La guardai. Lei era precipitata in un panico muto.
Se mi domandano la sua data di nascita, sto in un guaio di merda, pensai. Non ne ho la più pallida idea,
per non parlare di quella che avrà dichiarata lei. E questo tipo sta registrando il mio documento d'identità
sul suo taccuino. E io sto qui a mentire, a dire che è mia figlia. La mano mi sudava, sull'impugnatura della
valigia.
«So chi è lei», disse all'improvviso il poliziotto, guar-dando all'insù. «Lei ha scritto Charlotte del sabato
mattina. I miei bambini vanno pazzi per i suoi libri. Mia moglie li ama».
«Grazie, lo apprezzo davvero. Permette però che ades-so porti a casa mia figlia?».
Chiuse il taccuino e mi fissò piuttosto freddamente per un istante.
«Certo, penso che sarebbe una dannata buona idea», disse con insolenza. Mi guardava come se fossi
sporco. «Sa in che razza di posto sua figlia viveva?».
«Un terribile errore, un terribile...».
«Quel tipo della camera sul retro ha accoltellato la sua ragazza e l'ha guardata morire, prima di
chiamarci. Dice che gliel'ha detto Dio, di farlo. Era fuori di testa quando siamo arrivati qui. Segni di buchi
sulle gambe e sulle braccia. Non si ricorda neanche di averci chiamati, meno ancora di aver ucciso la
ragazza. E sa cosa c'è dall'altra parte dell'ingres-so...?».
«Desidero solo portarla via di qui...».
«Due frocetti di quelli tosti che si fanno le checche a Polk Street. E indovina chi abita al piano di sopra?
Traffi-canti di roba per giovani di provenienza sospetta, di quelli che dopo una bidonata trovi morti con
una pallottola alla nuca».
Non potevo far altro che lasciarlo finire. Rimasi là, rigido, con la faccia accaldata.
«Signore, lei può anche scrivere libri straordinari, ma per sapere come far da padre a questa ragazzina,
ha bisogno di leggerne qualcuno».
«Ha ragione, assolutamente», mormorai.
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«La porti fuori di qui».
«Sì, signore».
In macchina lei crollò completamente. Tra i singhiozzi, non afferravo tutto quello che diceva, ma molte
cose mi si chiarirono. L'assassino era lo stesso tipo che le aveva fregato la radio, davvero un indegno
figlio di puttana che l'aveva perseguitata tutto il tempo, battendo pugni e calci sulla porta quando lei non
voleva aprire.
Riguardo alla sua patente intestata a Linda Merit, era falsa, ma la polizia non poteva provarlo. L'aveva
ottenuta con la vera data di nascita di una ragazza morta di Los Angeles; il nome l'aveva preso da vecchi
giornali in biblio-teca.
Ma i poliziotti continuavano a dire che non le credeva-no. La facevano stare in piedi mentre inserivano il
nome nei loro computer. Lei continuava a pregare che la ragazza mor-ta non avesse lasciato multe non
pagate a San Francisco.
Solo quando aveva detto loro di avere un padre che sarebbe venuto a prendersela, l'avevano lasciata in
pace.
Le assicurai che aveva fatto proprio bene e che ora era al sicuro. Cercavo di non pensare al poliziotto
che aveva scritto il mio nome e indirizzo e che mi aveva riconosciuto.
* * *
Quando arrivammo a casa, io letteralmente la traspor-tai dentro. Stava ancora piangendo. La feci
sedere in cucina, le asciugai la faccia e le chiesi se aveva fame.
«Vorrei solo ritrovarmi», disse.
Rifiutò persino un bicchiere d'acqua.
Dopo un po' si tranquillizzò. Erano quasi le cinque. E la luce del mattino stava appena attraversando le
tendine della cucina. Lei appariva stordita e affranta. Poi per un po' parlò di una lite per questioni di
droga, quando gli agenti della squadra antinarcotici avevano preso a calci entrambe le porte, quella
principale e quella sul retro, dell'appartamento sopra a lei. Ogni pezzo del mobilio era stato ridotto in
brandelli. Avrebbe dovuto andarsene subito allora.
«Posso prepararti qualcosa da mangiare?», dissi.
Lei scrollò la testa. Domandò se poteva avere qualcosa da bere.
La baciai. «Ne vuoi?», domandai. Lei si alzò, mi venne vicino e si prese il Chivas Regal e se ne versò
mezzo bicchiere. La osservavo bere con disinvoltura, nell'esatto modo in cui sempre beveva, come se
niente fosse. Mi faceva male vederla così, che trangugiava scotch.
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Si asciugò la bocca, mise bottiglia e bicchiere sul tavolo, e si sedette di nuovo. Appariva terrorizzata,
vulnerabile e insieme attraente. Quando infine i suoi occhi blu si fissaro-no su di me, la trovai irresistibile.
«Voglio che tu ti trasferisca qui», dissi.
Non rispose. Appariva stordita. Notai che si versava un altro bicchiere di scotch.
«Non ti ubriacare», le dissi con dolcezza.
«Non mi sto ubriacando», disse lei freddamente. «Per-ché vuoi che mi trasferisca qui? Perché vuoi
convivere con un'esca da galera?».
La osservai con attenzione, cercando d'immaginarmi il motivo della sua rabbia. Lei prese un pacchetto di
Garam dalla tasca e se ne incollò una al labbro. La scatola di fiammiferi che aveva lasciata a colazione
era ancora là. L'aprii, strofinai il fiammifero e le accesi la sigaretta.
Si abbandonò sulla sedia, con il bicchiere in una mano, la sigaretta nell'altra, i capelli tutti sciolti e in
disordine, il cap-potto di leopardo ancora addosso. Proprio un figurino di don-na, con quei neri lustrini
che facevano capolino tra i risvolti.
«Allora, perché mi vuoi qui?». La sua voce era gelida. «Hai compassione di me?».
«No», dissi.
«Posso trovare qualche altro posto dove vivere», rispo-se lei. Dura, con una voce di donna che le usciva
dalla bocca di bambina. Sbuffo di fumo. Odore d'incenso della sigaretta aromatizzata.
«Lo so», dissi. «Ma ho desiderato averti qui fin dalla prima notte che abbiamo passata insieme.
Desideravo che rimanessi qui anche stamattina, quando tu te ne sei andata. Prima o poi te l'avrei chiesto.
E qualunque cosa io provi, senso di colpa o altro, è quello che voglio. Per te è meglio stare con me che in
un posto come quello».
«Oh, lo so che tutto quel casino ti fa andare in bestia. Non è così?».
Respirai profondamente.
«Belinda», dissi, «io sono, in fondo in fondo, un bel tipo all'antica. Chiamami ottuso, sempliciotto o come [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]
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